Non c’è nessuna speranza di risollevare le sorti della
Repubblica di San Marino senza una chiara politica estera, soprattutto in
questa fase.
È cosa ormai acclarata che dal punto di vista bancario e
finanziario si sia perso un anno ad inseguire una velleitaria ed autolesionista
politica di bonifica che ha prodotto tanti slogan ma nessun fatto positivo:
internazionalizzazione, banca pivot, bad bank, risoluzione degli NPL, l’elenco
potrebbe essere lungo. Nulla di quanto dichiarato, che non sia la chiusura di
una banca o la costosissima statalizzazione della Carisp, è avvenuto. Abbiamo
già approfondito quanto accaduto con Banca Centrale, con i suoi CdA e quello di
Carisp, o il bilancio di quest’ultima: un continuo e ripetuto vagare alla cieca
per poi fare dietro front. Soprattutto non si è ottenuto nessun accesso
all’esterno del nostro sistema bancario e nessuna nuova banca è arrivata
(l’acquisto, sub iudice di una banca da parte di un investitore estero è un’altra
cosa).
Ora è tempo di rendicontare rispetto alla dimensione dei
rapporti internazionali, della politica estera, perché è questo il settore in
cui maggiormente, in termini strategici se non economici, si sta pagando
l’assenza di una guida chiara, coerente con la nostra storia e soprattutto
lungimirante.
Gli ultimi esecutivi avevano prodotto, dopo l’era delle black
list, la normalizzazione dei rapporti con l’Italia, la conformità con gli
standard internazionali rispetto alla fiscalità ed allo scambio di
informazioni, l’avvio di un nuovo rapporto, più stretto, con l’Unione Europea.
Il PSD rivendica molti dei suddetti risultati, ottenuti in particolare
nell’ultima legislatura con la coalizione Bene Comune, e l’approvazione di
leggi sullo scambio automatico delle informazioni, sulla riforma fiscale delle
imposte dirette e gli indirizzi per l’integrazione europea.
C’era un progetto a supporto delle scelte politiche e c’era
anche condivisione in aula attraverso lunghi e produttivi dibattiti che si
concludevano con Ordini del Giorno per lo più sostenuti anche dall’opposizione
e una convergenza anche con i fondamentali attori non politici del paese,
sindacati, categorie, etc.
Si era lasciata una situazione, soprattutto con l’Italia, con
una positiva inerzia: la legislatura si è conclusa con il Direttore dell’Agenzia
delle Entrate a San Marino e la promessa di un ulteriore appuntamento per
valutare reciproci progetti in Italia, purtroppo non organizzato dall’attuale
esecutivo.
Le coordinate del posizionamento della Repubblica erano
chiare: conclusione degli accordi con l’Italia, compreso il memorandum Banca
Italia, creazione di nuove occasioni di sviluppo bilaterale, entrata nel
mercato unico europeo attraverso l’accordo di associazione con l’UE,
rivisitazione del funzionamento della diplomazia, espansione delle relazioni
con paesi strategici, senza pregiudicare il piano principale, al quale
appartiene l’asse Italia-Europa.
Le domande sorgono spontanee: dove va San Marino? Perché il
rapporto con l’Italia non è più al centro della discussione? A che serve
parlare di internazionalizzazione, di rapporti con paesi problematici, di
trovare in primis accordi con stati dall’altra parte del mondo? È certo sempre
auspicabile siglare nuovi patti reciproci, ma ci sono delle priorità date le
nostre limitate possibilità.
Pare che la condotta del governo - pur di contraddire un
passato in cui comunque molti dei partiti che lo supportano erano protagonisti
- spinga verso scelte pericolosissime per un piccolo stato, due su tutte:
affidarsi a potentissimi investitori esterni per reperire le ingentissime
risorse necessarie a coprire un debito che si è voluto a tutti i costi
affrontare senza nessuna preparata strategia, e la seconda è quella di
dimenticarsi che non siamo un’isola, non siamo nel deserto, siamo bensì in
mezzo all’Europa, dentro la Repubblica Italiana.
Non c’è nessuna possibilità di uscire dalla crisi se non si
ha chiaro il percorso, ma non uno a caso, bensì uno di quelli possibili date le
condizioni in cui siamo.
Siamo più isolati di un anno fa. Anche l’american Express
abbandona San Marino, Doing Business rileva un peggioramento delle condizioni
di competitività rispetto al 2016, non arrivano investimenti significativi.
Il cosiddetto piano di stabilità dovrebbe avere al centro la
politica estera, il posizionamento di San Marino rispetto al contesto
continentale, non le tecnicalità. Senza questo semplicemente non ci sarà la
ripresa necessaria, qualsiasi saranno le conclusioni del piano stesso, che
richiederanno sacrifici a fronte di uno sviluppo economico indispensabile e
ripagare il debito che abbiamo e che stiamo per contrarre.
Se il modello che scaturirà dal piano di stabilità parlerà di
necessità di investitori privati che devono finanziare la Repubblica, della
necessità di nuove norme sulle residenze dei facoltosi, della vendita di parte del patrimonio pubblico per fare
liquidità, magari dell’Aeroporto Internazionale (cosa evidentemente senza senso
a meno di far fare i controlli di dogana all’Italia) o di un vero e proprio
casinò (finalmente avallato dal suo acerrimo nemico), se il modello
finanziario, come già detto da Celli, è quello di Jersey, se non si parlerà di
come devono essere i rapporti con i nostri partner principali, il patatrac sarà
compiuto, si ritornerà a fare il paese offshore. Allora sarebbe bastato
prendere i vituperati piani McKinsey o Ambrosetti, li avevamo già pagati e
dicevano le stesse cose.
San Marino, 21 febbraio 2018 L’Ufficio
Stampa PSD